giovedì 2 febbraio 2017

IL GIORNO DELLA VERITÀ

Una piccola anticipazione del romanzo (Cap.58)
Miami, 
lunedì 8 giugno 2009

Nell’aula semicircolare dell’università la lezione di fisica era giunta quasi al termine e Sara continuava ad osservare con perplessità la lunga sequenza di equazioni e di sigle incomprensibili proiettate sul grande schermo. 
Era arrivata a Miami il sabato sera e aveva utilizzato l’intera giornata successiva per smaltire gli effetti del fuso orario. Il silenzio era carico di attenzione ed una ventina di studenti erano concentrati a prendere appunti come se non potessero perdere nemmeno una parola di quella preziosa lezione. Sulla pedana leggermente rialzata il professore si muoveva con la disinvoltura di un grande attore ed il tono della sua voce sottolineava in maniera teatrale i passaggi più importanti della lezione. 
Aveva indubbiamente carisma e riusciva a mantenere alta l’attenzione degli studenti anche quando percepiva che la concentrazione si stava allentando. Sara se ne stava seduta un po’ in disparte osservando la scena con lo sguardo assorto nei propri pensieri. Era l’unica a non prendere appunti ed era piuttosto evidente che il suo interesse per quelle equazioni era molto relativo. Mancavano dieci minuti alle 11,00 e ormai attendeva solo che la lezione terminasse per poter intervistare quello strano professore universitario, l’unico della lista che aveva accettato la sua richiesta di intervista. 
Le luci si riaccesero e gli studenti cominciarono a raccogliere block notes, libri di testo e dispense per infilarli nelle borse capienti che portavano a tracolla come zaini. Sara attese che la sala fosse quasi completamente vuota e poi si diresse verso la cattedra dove lui la stava aspettando accanto allo schermo bianco. Era molto più giovane di quello che si era aspettata e questa constatazione inizialmente l’aveva un po’ spiazzata. Quando era partita dall’Italia si era sempre immaginata che quello stimato professore universitario dovesse per forza essere un vecchio e autorevole cattedratico in giacca e cravatta, magari con occhiali tondi e barba bianca ed invece quello che aveva di fronte aveva un aspetto così giovanile che non doveva avere più di quarant’anni. Lui fece un passo avanti come se le avesse letto nel pensiero e le porse la mano con un sorriso disarmante.
«Buongiorno e ben arrivata, sono il professor Harrison Brighton ed ho la fortuna di insegnare Fisica applicata in questa splendida facoltà.»
«Grazie di aver accettato la mia richiesta, professore. Mi chiamo Sara De Blasi e sono un’inviata del Corriere della Sera, un quotidiano italiano che in questa occasione collabora con il New York Times.»
«Sì, lo so, mi hanno già informato di tutto. Venga, possiamo parlare anche fuori da questi luoghi sacri del sapere. Le va di prendere un aperitivo?»
Lei si lasciò guidare camminando al suo fianco e qualche minuto dopo si ritrovarono all’aperto sotto un sole caldo che era improvvisamente sbucato oltre i giganteschi nuvoloni bianchi. Sara sembrava un po’ a disagio perché di certo non si era attesa un approccio così informale sull’argomento che le stava a cuore. Erano seduti ad un tavolo sotto un grande ombrellone e lei si guardava attorno un po’ incerta, come se stesse cercando il modo migliore per iniziare la conversazione. L’imbarazzo durò però solo un attimo perché poi decise di prendere in mano la situazione arrivando subito al dunque.
«Allora, professor Brighton, lei è sicuramente...»
«Mi chiami pure Harrison, non mi sono mai piaciuti i formalismi.»
«D’accordo professor Harrison, tra poco più di un mese ci saranno grandi festeggiamenti per celebrare il quarantesimo anniversario di quella straordinaria avventura ed io sono qui perché mi interessa il suo punto di vista sulle varie missioni Apollo ed in particolare su quella che ha consentito agli uomini di camminare sulla Luna il 20 luglio 1969.» 
«Lei lo crede davvero?»
Sara lo guardò stupita. 
«Lei pensa che non ci saranno delle celebrazioni ufficiali?»
«Non ho assolutamente detto questo. Anzi, sono sicuro che le faranno in grande stile perché l’America ha bisogno di queste cose e ne ha sempre avuto bisogno.»
«Mi scusi, temo di non seguirla...»
«Capisco la sua perplessità, d’altra parte non è una cosa facile da comprendere.» 
«Cosa intende dire, potrebbe essere più diretto?»
«Vede, lei appartiene come me ad una generazione che non ha vissuto in prima persona lo svolgersi di quegli eventi straordinari ma, a differenza di me, lei non ha a sua disposizione le conoscenze tecniche necessarie per poterli valutare con distaccata obiettività. Immagino che lei sia nata dopo il 20 luglio del 69 giusto?»
«Sì, sono nata solo pochi mesi dopo. Perché me lo chiede?»
Lui le sorrise con complicità spostando di lato i capelli biondi che gli ricadevano sulla fronte. Per un attimo sembrò voler cambiare discorso e fissò il cellulare che lei aveva appoggiato sul tavolino accanto al suo taccuino. Senza chiedere il suo consenso lo prese in mano e lo osservò con attenzione prima di guardarla di nuovo negli occhi.
«È un bell’oggetto di design, vero? Un concentrato di tecnologia in pochi centimetri quadrati...»
Lei lo osservava sempre più sconcertata cominciando a temere che non fosse proprio una persona con tutte le rotelle al posto giusto.
«Saprebbe dirmi approssimativamente quanti megahertz di potenza ha il processore del suo cellulare?»
«Beh, no, non saprei proprio, non so nemmeno cosa sono i megahertz...»
«Non si preoccupi, glielo spiego io molto semplicemente. Deve sapere che qualsiasi processore esegue un ciclo di lavoro che comprende quattro fasi distinte e cioè l’acquisizione delle informazioni, la decodifica, l’esecuzione ed infine la riscrittura. Maggiore è il numero di cicli che il processore è in grado di completare nell’unità di tempo stabilita, cioè in un secondo, e maggiore sarà la frequenza di lavoro misurata in hertz. Il processore del suo cellulare ha esattamente 2 gigahertz che equilvalgono a 2.000 megahertz e tradotto in parole povere questo significa che il suo cellulare è in grado di eseguire ben due miliardi di cicli al secondo.»
«Sicuramente sarà come dice lei però non capisco dove vuole arrivare...»
«Stia tranquilla, non sono impazzito. Adesso le farò un’altra domanda, una domanda che è direttamente collegata al tema che le sta tanto a cuore...»
Sara lo osservò con interesse crescente. Aveva studiato la sua espressione e ne sapeva abbastanza di psicologia da poter escludere che fosse pazzo. Forse cercava solo far colpo su di lei ma in ogni caso aveva ottenuto tutta la sua attenzione.
«Immagino che lei si sia preparata adeguatamente sull’argomento del primo sbarco lunare...»
«Sì certo, anche se non posso dire di avere sufficienti conoscenze tecniche per comprendere la complessità della missione.»
«Se è per questo, solo pochi al mondo ne hanno... ma adesso comunque non ha nessuna importanza. Piuttosto la mia domanda è la seguente: lei sa che durante la fase di discesa sulla Luna il comandante dell’Apollo 11 ha dovuto azionare manualmente il computer di bordo per correggere la traiettoria ed evitare di schiantarsi sul suolo lunare?»
«Sì, e se non ricordo male fu proprio Neil Armstrong a prendersi questa grande responsabilità dimostrando molto sangue freddo.»
«Già proprio così. All’interno della minuscola navicella era scattato l’allarme ed in quei drammatici secondi lui era riuscito a mantenere la calma e dopo aver escluso parzialmente il computer centrale e resettato il computer di bordo aveva impostato una nuova e perfetta traiettoria di discesa. Si ricorda che potenza aveva quel formidabile processore che in pochi secondi era riuscito a rielaborare tutti i dati?»
«No, non saprei proprio...»
«Allora glielo dico io. La potenza e quindi la velocità di quel formidabile computer era di soli 2 megahertz, cioè mille volte inferiore a quella che adesso è installata sul suo cellulare. Incredibile vero?»
«Dice sul serio o si sta prendendo gioco di me?»
«Non potrei essere più serio e lei ha perfettamente ragione a pensare che sia una cosa incredibile perché infatti non lo è per niente.»
«Non crede che il computer di bordo avesse solo 2 megahertz di potenza?»
«No, non ho detto questo. Ho detto solo che non è credibile poter correggere una rotta in tempi così rapidi e con un computer così primitivo. Il processore installato nel LEM dell’Apollo 11 non era dotato di alcun sistema operativo ma solo di un modesto software di gestione che dal punto di vista del tipo di programmazione oggi può essere paragonabile ad una piccola calcolatrice tascabile. Deve sapere inoltre che la memoria complessiva era di soli 36 kilobyte, una vera miseria se pensa che sul mio notebook adesso è installata una memoria da 1 gigabyte, cioè un valore ventinovemila volte più grande e che la memoria del suo bellissimo iPhone è di 512 megabyte, ossia quasi quindicimila maggiore. Tenga presente che a quei tempi non erano ancora stati inventati i microchip e che tra il 1969 ed il 1970 il processore CDC 7600, allora considerato il più potente del pianeta, era dotato di un sistema di raffreddamento inadeguato che mediamente si guastava almeno una volta al giorno.» 
«E quindi?»
«Ci dovrebbe arrivare per deduzione logica perché in realtà è tutto molto semplice: non è credibile che in quei pochi e convulsi secondi Neil Armstrong abbia resettato il rudimentale computer di bordo e rielaborato una mole infinita di informazioni riguardo velocità, inclinazione, gravità, potenza nonché decelerazione dei motori e sia riuscito poi ad impostare la correzione di rotta necessaria per evitare l’impatto disastroso sul suolo lunare. Dunque se questo fatto non è nemmeno ipotizzabile in quelle condizioni significa che anche tutto ciò che è accaduto dopo non può essere considerato credibile.»
«Mi sta dicendo che...»
«Io le sto solamente dando la possibilità di guardare gli eventi da un’altra angolazione superando tutte le convenzioni ed i luoghi comuni, lasciando la sua mente libera dai condizionamenti della televisione.» 
Lei lo guardava cercando di assimilare il reale significato di ciò che aveva appena ascoltato ma non aveva a disposizione il tempo necessario perché lui aveva ripreso a parlare e lo faceva con una calma ed una sicurezza quasi irritante.
«Come immagino lei sappia, tra il 1969 ed il 1972, ci sono state ufficialmente sei missioni lunari che in soli tre anni hanno portato ben dodici uomini a camminare sul suolo lunare e, se si esclude la missione dell’Apollo 13, sono tutte perfettamente riuscite. Prima di continuare l’argomento però credo che adesso lei dovrebbe porsi un’altra domanda importante.»
Si accese con calma una sigaretta e lei restò a fissare la sua prima boccata in un silenzio carico di attesa.
«Dunque, la domanda che lei dovrebbe porsi è la seguente: come mai dal lontano dicembre del 1972 fino ad oggi non solo gli Stati Uniti d’America ma nessun altro Paese al mondo è riuscito a mandare qualcuno sulla Luna? Eppure con tutti i progressi tecnologici avvenuti negli ultimi quarant’anni a quest’ora sulla Luna dovrebbe esserci un’immensa base spaziale collegata con voli regolari Terra-Luna e magari anche verso Marte. Rifletta pure con calma prima di rispondere.»
Lei si sentiva a disagio come nelle rare occasioni in cui non aveva saputo rispondere adeguatamente durante un esame all’università. 
«Senta, io non sono venuta fin qui per darle delle risposte ma solo per acquisire quelle informazioni che possono risultare utili al mio servizio giornalistico. Mi sembra di capire che lei sia piuttosto perplesso sulle missioni lunari e sembra quasi voler condividere il Moon Hoax, la teoria del complotto lunare. Se non ricordo male molti anni fa era stato pubblicato un libro che aveva suscitato un certo scalpore...»
«So a cosa si riferisce. Il titolo era piuttosto eloquente: “Non siamo mai stati sulla Luna”. È stato scritto da Bill Kaysing nel lontano 1975 e mi sembra che molti anni dopo sia stato pubblicato anche in Italia. Però adesso mi ascolti bene, Sara, perché io non mi sono mai lasciato suggestionare facilmente da teorie complottistiche o da macchinazioni di ogni genere. Io sono un ricercatore e poiché mi considero uno scienziato che studia seriamente la fisica applicata devo analizzare i fatti obiettivamente per giungere alle conclusioni logiche a prescindere dalla verità ufficiale.»
«Condivido la sua premessa, però se mi consente lei non può negare l’evidenza delle prove ed in questo senso ci sono state le riprese televisive che hanno mostrato gli astronauti americani camminare sulla Luna in diretta mondiale. Insomma, crede davvero che siano state invenzioni anche quelle?»
Lui sorrise e si appoggiò sullo schienale dandole l’impressione di essere perfettamente a suo agio.
«Lei fa la giornalista e certe cose dovrebbe ormai averle imparate. Le notizie e le informazioni che assorbiamo dai giornali, dalle riviste, dalla radio e dalla televisione sono sempre asservite al potere. Non ci stupiamo più se molti anni dopo scopriamo che alcuni avvenimenti che hanno fatto la nostra storia recente sono stati modificati o inventati di sana pianta dai mezzi di comunicazione di massa. Questa è la sola ed unica verità e non tutti sono disposti ad accettarla. I libri di storia sono scritti sempre da chi ha vinto la guerra e come immagino lei sappia, in guerra la verità è sempre la prima vittima...»
«Quelle erano solo missioni spaziali, non mi risulta ci sia stata nessuna guerra...»
«Lei crede? Tra le carte di mio padre ho trovato un articolo del New York Times pubblicato in prima pagina nel 1967. Il titolo era più o meno questo: “La corsa verso la Luna equivale ad una guerra. Per chi dovesse soccombere non ci sarebbe altro che miseria e dannazione.”»
Prima di continuare Harrison fece una lunga pausa, come se stesse valutando attentamente le parole da utilizzare. 
«Guardi che in quegli anni siamo stati molto vicini a lanciare i razzi contro le basi nucleari russe posizionate a Cuba ed in realtà la corsa per la conquista dello spazio è diventata una lotta senza esclusione di colpi proprio perché in ballo c’era la supremazia tecnologica, politica e militare da affermare nel mondo intero. L’America è uscita vittoriosa da questa guerra ma per farlo ha dovuto ricorrere a tutti i mezzi, compresi quelli non proprio convenzionali.»
Harrison aveva esposto il suo punto di vista con un tono di voce pacato e tranquillo ma la gravità di quei concetti sembravano ancora sospesi nell’aria. Si era appena acceso un’altra sigaretta quando il suo cellulare aveva interrotto il filo dei suoi ragionamenti ed una volta chiusa la comunicazione guardò l’orologio con una certa preoccupazione.
«Mi deve scusare ma adesso devo proprio andare. Se vuole potremmo riprendere la nostra conversazione nel tardo pomeriggio, al termine della mia lezione. Mi chiami pure a questo numero.» 
Le strinse la mano educatamente e poi si allontanò con passo sicuro senza mai voltarsi indietro.


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