giovedì 28 aprile 2016

UNA STORIA TENUTA NASCOSTA (3)



Secondo l’articolo di Wade, le navi americane nel Golfo di Biscaglia “stavano esercitandosi nel recupero di una capsula “boilerplate” dell’Apollo”. Questa affermazione genera diversi interrogativi.
1) Se davvero queste esercitazioni erano una pratica comune, allora perché tanto gli americani quanto i sovietici hanno tenuto nascosta la data delle operazioni (che ancora oggi Wade definisce con vaghezza “in early 1970”)?
2) Perché questa presunta esercitazione avvenne (se sono vere le ipotesi avanzate fin qui) in concomitanza con il lancio dell’Apollo 13?
3) Come fece la capsula Apollo ad arrivare nel Golfo di Biscaglia? E’ difficile pensare che sia emersa dal fondo marino o che sia stata lasciata lì da una nave di passaggio. Ovviamente deve essere precipitata dal cielo. L’unica incognita è: da quale altezza? Su questo fondamentale argomento tanto Wade quanto la NASA, tacciono.
4) Cosa sono quelle strane macchie visibili sulla capsula recuperata nel Golfo?
Nella foto qui sopra vengono messe a confronto la capsula dell’Apollo 13 recuperata dopo la “missione sulla Luna” e la capsula “catturata” dai sovietici. Su entrambe si notano le caratteristiche “macchie bianche” che, nelle intenzioni della NASA (immagino) dovrebbero provare la corrosione subita durante l’impatto con l’atmosfera. Strano che esse siano presenti anche su una capsula il cui unico impatto era stato quello con la superficie marina. Sarà stata la salsedine?
5) Perché mai proprio il Golfo di Biscaglia era stato scelto come teatro per questo tipo di “esercitazioni”? Secondo la NASA, le capsule Apollo ammaravano nell’Oceano Pacifico. Il Golfo di Biscaglia si trova nell’altro emisfero e non è mai stato indicato come punto di possibile splashdown delle capsule. Perché allora fare “esercitazioni” proprio lì?
In generale, il tentativo della NASA e di Wade di ridurre tutta questa faccenda ad un errore nelle esercitazioni militari è assai poco convincente. Tutto fa pensare che non fosse affatto un’esercitazione: le navi americane si trovavano nel Golfo di Biscaglia, la notte fra l’11 e il 12 aprile 1970, per recuperare la capsula dell’Apollo 13. Da Cape Canaveral, quell’11 aprile, alle ore 19.13 GMT, era stato lanciato nient’altro che un modellino di capsula, vuoto e senza nessun astronauta dentro. Solo che anziché volare sulla Luna e poi ammarare nel Pacifico, per qualche motivo la capsula era finita nell’Atlantico, al largo delle coste europee. E’ probabile che la zona del Golfo di Biscaglia fosse stata scelta in origine per eludere la costante sorveglianza navale dei sovietici al largo delle coste americane. Dopotutto, non era possibile – o perlomeno era molto fastidioso – dover allontanare tutte le volte le navi-spia russe dalla zona di recupero delle capsule con le armi in pugno. Si era dunque pensato ad un ammaraggio in una zona meno sorvegliata dall’intelligence russo, a 6000 km. di distanza, dall’altra parte del globo, non troppo lontano dalle coste di un alleato strategico degli Stati Uniti come l’Inghilterra (Wade ci informa infatti che le navi americane che parteciparono alle operazioni erano “di stanza in Inghilterra”). Il Golfo di Biscaglia era una zona frequentemente colpita dalle tempeste, per cui le navi civili se ne tenevano alla larga e anche le navi-spia sovietiche la frequentavano di rado. Certo, c’erano le navi sovietiche impegnate nelle esercitazioni di Okean-70, ma le esercitazioni avevano carattere globale e una zona come il Golfo, spazzata dalle tempeste, era tra tutti i posti quello in cui era forse possibile sperare di avere i russi un po’ meno tra i piedi. Non fosse stato per l’incidente del K-8, che, anziché rientrare alla base il 10 aprile, come era nelle previsioni, richiamò una quantità di navi russe nel Golfo nel tentativo di portare soccorso…Secondo la NASA, la navicella spaziale Apollo 13 effettuò un giro e mezzo attorno alla Terra, quindi il motore del terzo stadio viene riacceso per immetterla su un’orbita di trasferimento verso la Luna.  Stando invece a quanto racconta A. I. Popov in “Americani sulla Luna: grande impresa o truffa?”, la navicella Apollo non andò in orbita da nessuna parte. L’Apollo venne lanciato da Cape Canaveral in direzione est, sotto gli occhi di migliaia di spettatori. Ma nessuno potè vedere dove andava a finire. Deviando la traiettoria del razzo di poche decine di gradi, il volo avrebbe potuto facilmente concludersi nel Golfo di Biscaglia. La deviazione poteva facilmente aver luogo dopo che il razzo era scomparso dalla visuale degli spettatori. In questo caso, secondo Popov, la deviazione fu eseguita in modo che il missile volasse a circa 100 km. di altitudine e a una distanza fra i 300 e i 700 km. dalle coste americane. Sui suoi siti web, la NASA fornisce una quantità di informazioni tecniche sulle capsule Apollo. Apprendiamo, ad esempio, che il modulo di comando dell’Apollo 13 era un cono tronco di circa 3,65 metri di altezza e 3,9 metri di diametro alla base, con un volume di circa 6,17 metri cubi e un peso di 5,7 tonnellate. Il modulo di servizio (cioè la struttura cilindrica connessa al modulo di comando che conteneva i sistemi di propulsione) pesava circa 23 tonnellate, carburante e materiali inclusi. Il LEM altre 22 tonnellate circa. Eccetera eccetera. Nel complesso, il razzo Saturn V, utilizzato per mandare in orbita tutto questo apparato necessario alle missioni lunari, aveva una portata di 120-130 tonnellate. Ora, Popov sostiene nel suo libro che gli americani non sarebbero mai riusciti, in realtà, a sviluppare un razzo in grado di portare in orbita tutto questo carico. Avrebbero semplicemente perfezionato il vecchio modello di Saturn 1 in un più moderno Saturn-1B, che aveva tuttavia una portata di carico di non più di 15 tonnellate. Il Saturn-1B sarebbe poi stato ricoperto con un pesantissimo rivestimento che lo faceva apparire come un razzo più potente e moderno. In realtà questo rivestimento pesava molte tonnellate, tanto che il razzo non avrebbe potuto, a questo punto, neppure andare in orbita. Non era necessario, del resto. Le capsule trasportate erano poco più che decorative, prive di astronauti e molto simili a quella ripescata nel Golfo di Biscaglia: non più di una tonnellata di peso (cioè quasi 1/6 di una capsula standard) e con uno spessore delle pareti di circa 5  mm. Scopo essenziale del razzo era di portare tutto questo apparato, per così dire, fuori dalla visuale e farlo ammarare lontano da occhi indiscreti, affinché il “recupero della capsula” potesse poi essere messo in scena al momento giusto. Naturalmente la capsula, non avendo persone a bordo, non aveva bisogno di nessuna protezione termica, che avrebbe aggiunto solo inutile peso al carico da trasportare. Ed ecco che ci troviamo di fronte ad una capsula “priva di rivestimento termico” come quella ripescata nel Golfo e poi descritta dagli esperti. Il lancio da Cape Canaveral verso la  Luna passava attraverso varie fasi. Gli “astronauti” salivano sull’ascensore che li portava verso il modulo di comando, sfilando di fronte a giornalisti e spettatori estasiati. Una volta saliti in cima, a 111 metri d’altezza, entravano nel “boilerplate” dove nessuno poteva vederli, tranne un piccolo e selezionato gruppo di reporter e dipendenti NASA. Nei filmati NASA, la scena dell’ingresso nella capsula dura sempre solo 2 o 3 secondi. E la qualità dei filmati è tale che non si riesce a vedere cosa ci sia all’interno della cabina. Si vede solo il portellone aperto, che è quello indicato qui sotto dalla freccia.

E’ importante notare che questo portellone è rettangolare e privo di “oblò” (proprio come nella “capsula di Biscaglia”); mentre nei filmati del “recupero” nel Pacifico, il portellone della capsula presenta angoli arrotondati e un oblò ben visibile (vedi figura più sopra). Dunque, gli “astronauti” entravano nella capsula “boilerplate”, col portellone rettangolare e senza oblò, e al momento del recupero nel Pacifico uscivano da una capsula più robusta, con oblò e portellone ad angoli tondeggianti. Un numero degno dei migliori prestigiatori di cabaret. Dopo aver allontanato i fastidiosi testimoni, gli astronauti venivano fatti uscire dalla capsula e portati in una zona precedentemente stabilita, dove sarebbero rimasti nascosti fino al termine della “missione”. Di tempo ce n’era più che a sufficienza, visto che fra l’ingresso nella capsula e la partenza passavano sempre diverse ore. Dopo la partenza, il razzo privo di equipaggio era pronto per volare sul Golfo di Biscaglia.
Secondo la NASA, la navicella Apollo 13 diretta verso la  Luna era composta di 3 elementi: il modulo lunare (o LEM), la capsula (o modulo di comando) e il modulo di servizio. 
Il 13 aprile, quando la navicella si trovava in prossimità della Luna, si sarebbe verificata un’esplosione dovuta ad un guasto elettrico in uno dei serbatoi dell’ossigeno del modulo di servizio. Ciò avrebbe provocato la perdita di entrambi i serbatoi d’ossigeno e il default del sistema elettrico, costringendo l’equipaggio a spegnere tutti i sistemi del modulo di comando per conservare l’energia e l’ossigeno necessari alle ultime ore di volo e a rifugiarsi nel LEM durante il viaggio di ritorno verso la Terra. Prima di fare rotta verso la  Terra, gli astronauti si separarono dal modulo di servizio danneggiato e lo immortalarono in una celebre fotografia.Qui sopra vengono messe a confronto la foto originale con una versione nella quale sono stati incrementati la luminosità e il contrasto. Nell’angolo in alto a destra compare un oggetto squadrato, circondato da un alone luminoso. Si tratta del tipico alone che sulla Terra è dovuto alle particelle di polvere che rifrangono la luce. Trattandosi di una foto scattata nello spazio, non dovrebbero esservi né particelle di polvere, né aloni, né oggetti angolari. La luce, nella fotografia, proviene proprio dalla direzione in cui compare l’alone, come dimostrato dalla posizione dell’ombra nel propulsore. Tutto fa pensare, insomma, che si tratti di una fotografia scattata in studio, sulla Terra, utilizzando un modellino e una fonte di luce artificiale, di cui l’oggetto quadrangolare visibile in alto a destra rappresenta probabilmente il supporto o uno dei supporti. La missione Apollo 13 doveva probabilmente servire alla NASA per allontanare da sé i sospetti di falsificazione delle missioni. Poteva infatti apparire poco credibile al grande pubblico che una serie di missioni umane sulla Luna, in un ambiente sconosciuto, con strumenti e mezzi che in precedenza non erano mai stati testati, filassero sempre perfettamente lisce, senza mai incontrare neppure l’ombra di un intoppo. Si decise così di organizzare una missione “non riuscita”, una sorta di “thriller” che tenesse gli spettatori incollati alla TV, riaccendesse l’interesse per le missioni e rendesse più umana e credibile l’epopea spaziale. Era stato naturalmente progettato anche l’immancabile lieto fine, che avrebbe soddisfatto il pubblico ed evitato orribili figuracce internazionali all’ente spaziale americano. Tutta questa splendida sceneggiatura rischiò di andare a monte a causa di un evento non previsto né prevedibile: la catastrofe (autentica) di un sottomarino sovietico che portò molte navi militari russe ad incrociare proprio nelle acque in cui la capsula doveva essere recuperata. E’ curioso anche notare come, proprio a partire dal 1970, le interferenze russe col programma spaziale americano vadano rarefacendosi fino a scomparire. Certo, l’URSS aveva ormai altre gatte da pelare, come la scarsa produzione di cereali che dall’inizio degli anni ’70 la rendeva sempre più dipendente dalle importazioni dall’estero (si sarà parlato anche di questo durante le trattative per la restituzione della capsula?). Ma può anche darsi che la spiegazione sia più semplice: nel 1970 i russi poterono finalmente guardare nella splendida scatola del programma spaziale americano, che tanto li aveva preoccupati e impegnati negli anni precedenti, e scoppiarono in una fragorosa e liberatoria risata. Dopotutto, i russi sono un popolo che, all’occasione, sa mostrare un prorompente senso dell’umorismo.«



                                 
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