venerdì 16 settembre 2016

L'IMPOSSIBILE SPLASHDOWN





Uno degli innumerevoli aspetti controversi delle missioni Apollo riguarda il fatto  che la Nasa  potesse calcolare  il punto esatto di rientro nell’atmosfera e quindi anche dell’ammaraggio nell’Oceano pacifico. Per comprendere l’enorme  complessità dell’operazione  bisogna tener presente  che durante la fase di ritorno gli astronauti dovevano accendere il motore del Modulo di Servizio quando si trovavano ancora nella parte nascosta della Luna, ed imprimere la spinta dei motori con l’esatta accelerazione che gli avrebbe consentito di vincere l’attrazione lunare. Tralasciando il fatto che lo schema di rientro avrebbe dovuto essere ben diverso (con una grande iperbole nel viaggio di andata ed una più piccola per il ritorno)  la domanda è la seguente : “Com’era possibile calcolare il punto di rientro sulla Terra se, in rapporto alla loro posizione nel momento della spinta dalla parte opposta alla Luna, la Terra si trovava in una posizione sconosciuta?” Sarebbe stata un’impresa enorme anche solo riuscire a individuare esattamente la traiettoria verso la Terra senza perdersi nello spazio, visto che era necessario azzeccare un angolo di incidenza tangente all’atmosfera terrestre con un margine di errore inferiore ad un grado e senza poter comunicare con il centro di controllo visto che il contatto radio con Houston  veniva reso impossibile dalla presenza della Luna stessa che impediva l’impulso radio diretto verso la Terra.  Figuriamoci, poi programmare il rientro della missione in rapporto alla rotazione terrestre il cui calcolo a sua volta avrebbe dovuto tener conto di una lunghissima serie di variabili dovute principalmente:
- alla somma di tutte le velocità della navetta con l’accelerazione in andata dei primi due stadi;
- all’esatta traiettoria orbitale terrestre;
- all’esatta spinta del terzo stadio in rapporto al momento della posizione di inizio spinta;
- al calcolo dell’esatta ellitticità del lunghissimo viaggio di andata;
- alla rotazione orbitale esatta attorno alla Luna in rapporto alla distanza dalla superficie per ogni orbita lunare;
- al calcolo esatto al millesimo della velocità di rotazione;
- alla esatta accensione e spinta del modulo di servizio in rapporto al peso residuo comprensivo delle rocce lunari raccolte;
- alla esatta traiettoria ellittica di ritorno,
- alla sua velocità progressiva nel viaggio automatico ellittico di ritorno;
Tutto ciò, al fine di arrivare all’appuntamento del contatto con l’atmosfera terrestre mentre la Terra si trovava nella posizione esatta tale da consentire il loro rientro nell’oceano Pacifico, in un punto ben definito e determinato dalla sommatoria di tutte le distanze, i tempi e la velocità, compresi il numero delle rotazioni orbitali lunari stabilite precedentemente in rapporto alla posizione della Terra dall’ora del lancio, fino alla sua esatta posizione nel momento del rientro in rapporto a tutti i tempi e velocità ed ai  percorsi ellittici con le esatte distanze da percorrere in ciascuna missione pianificata. E riuscire sempre perfettamente in un tale calcolo dalla loro prima missione con l’Apollo 8 e le sue 10 orbite lunari fino all’ultima con le sue 75 orbite! Insomma: non è proprio, materialmente possibile, soprattutto se pensiamo che nel 1969 a bordo della navicella non c’era nemmeno un personal computer degno di questo nome. Sarebbe stato meno inverosimile se almeno in una delle missioni Apollo avessero fatto una o più orbite lunari (di circa due ore) al fine di predisporre il rientro in un area dell’oceano Pacifico che comprenda due fusi orari. Inoltre sarebbe stato meno inverosimile se essi avessero dichiarato una velocità di impatto nell’atmosfera terrestre intorno ai 28.000 km/h, invece di quelli dichiarati dalla Nasa di 39.000 km/h e tutto questo  non fa che confermare l’ipotesi che essi non potessero essere in grado di prevedere il punto esatto in cui ammarare nell’Oceano Pacifico. Il punto di ammaraggio non poteva quindi assolutamente essere calcolato in rapporto a tutte le variabili del viaggio e per la sua fattibilità essi avrebbero dovuto quindi necessariamente disporre di un ulteriore quarto stadio, potente quanto il terzo, tale da imprimergli una decelerazione dai 39.000 km/h dichiarati fino ad una velocità di molto inferiore ai 28.000 km/h  (per non fondersi nell’impatto con l’atmosfera terrestre). Questo avrebbe consentito loro di restare nell’orbita terrestre per un ultimo giro e scegliere così il momento per la frenata in modo da precipitare con una parabola controllata nell’Oceano pacifico. Quindi, se non hanno predisposto tutto questo, come avrebbero fatto a tornare sani e salvi? In base ai parametri, agli schemi di viaggio ed alle informazioni sulla velocità di rientro fornite dalla Nasa per tutte le missioni Apollo, queste  sarebbero dunque dovute precipitare sulla Terra infuocandosi e disintegrandosi come dei meteoriti, altro che ammaraggio morbido! Ma se il Saturno V avesse avuto quattro stadi e non tre la sua massa sarebbe stata ancora maggiore  ed avrebbe avuto bisogno di una spinta iniziale enormemente superiore che a tutt’oggi è ancora impossibile da realizzare! 









1 commento:

  1. Troppe informazioni errate senza riscontro oggettivo. Non si può contestare senza dati reali ed essere adeguatamente informati. Diffondere notizie senza dichiarare le fonti significa comunicare falsita ideologica

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