Uno
degli innumerevoli aspetti controversi delle missioni Apollo riguarda il fatto che la Nasa potesse calcolare il punto esatto di rientro nell’atmosfera e
quindi anche dell’ammaraggio nell’Oceano pacifico. Per comprendere l’enorme complessità dell’operazione bisogna tener presente che durante la fase di ritorno gli astronauti
dovevano accendere il motore del Modulo di Servizio quando si trovavano ancora nella
parte nascosta della Luna, ed imprimere la spinta dei motori con l’esatta accelerazione
che gli avrebbe consentito di vincere l’attrazione lunare. Tralasciando il
fatto che lo schema di rientro avrebbe dovuto essere ben diverso (con una
grande iperbole nel viaggio di andata ed una più piccola per il ritorno) la domanda è la seguente : “Com’era possibile calcolare
il punto di rientro sulla Terra se, in rapporto alla loro posizione nel momento
della spinta dalla parte opposta alla Luna, la Terra si trovava in una
posizione sconosciuta?” Sarebbe stata un’impresa enorme anche solo riuscire a individuare
esattamente la traiettoria verso la Terra senza perdersi nello spazio, visto
che era necessario azzeccare un angolo di incidenza tangente all’atmosfera
terrestre con un margine di errore inferiore ad un grado e senza poter
comunicare con il centro di controllo visto che il contatto radio con
Houston veniva reso impossibile dalla
presenza della Luna stessa che impediva l’impulso radio diretto verso la Terra.
Figuriamoci, poi programmare il rientro della missione in rapporto alla
rotazione terrestre il cui calcolo a sua volta avrebbe dovuto tener conto
di una lunghissima serie di variabili dovute principalmente:
-
alla somma di tutte le velocità della navetta con l’accelerazione in andata dei
primi due stadi;
-
all’esatta traiettoria orbitale terrestre;
-
all’esatta spinta del terzo stadio in rapporto al momento della posizione di
inizio spinta;
-
al calcolo dell’esatta ellitticità del lunghissimo viaggio di andata;
-
alla rotazione orbitale esatta attorno alla Luna in rapporto alla distanza
dalla superficie per ogni orbita lunare;
-
al calcolo esatto al millesimo della velocità di rotazione;
-
alla esatta accensione e spinta del modulo di servizio in rapporto al peso
residuo comprensivo delle rocce lunari raccolte;
-
alla esatta traiettoria ellittica di ritorno,
-
alla sua velocità progressiva nel viaggio automatico ellittico di ritorno;
Tutto ciò, al fine di
arrivare all’appuntamento del contatto con l’atmosfera terrestre mentre la
Terra si trovava nella posizione esatta tale da consentire il loro rientro nell’oceano
Pacifico, in un punto ben definito e determinato dalla sommatoria di tutte le
distanze, i tempi e la velocità, compresi il numero delle rotazioni orbitali lunari
stabilite precedentemente in rapporto alla posizione della Terra dall’ora del
lancio, fino alla sua esatta posizione nel momento del rientro in rapporto a
tutti i tempi e velocità ed ai percorsi
ellittici con le esatte distanze da percorrere in ciascuna missione
pianificata. E riuscire sempre perfettamente in un tale calcolo dalla loro
prima missione con l’Apollo 8 e le sue 10 orbite lunari fino all’ultima con le
sue 75 orbite! Insomma: non è proprio, materialmente possibile, soprattutto
se pensiamo che nel 1969 a bordo della navicella non c’era nemmeno un personal
computer degno di questo nome. Sarebbe stato meno inverosimile se almeno in una
delle missioni Apollo avessero fatto una o più orbite lunari (di circa due ore)
al fine di predisporre il rientro in un area dell’oceano Pacifico che comprenda
due fusi orari. Inoltre sarebbe stato meno inverosimile se essi avessero
dichiarato una velocità di impatto nell’atmosfera terrestre intorno ai 28.000
km/h, invece di quelli dichiarati dalla Nasa di 39.000 km/h e tutto questo non fa che confermare l’ipotesi che essi non potessero
essere in grado di prevedere il punto esatto in cui ammarare nell’Oceano
Pacifico. Il punto di ammaraggio non poteva quindi assolutamente essere
calcolato in rapporto a tutte le variabili del viaggio e per la sua fattibilità
essi avrebbero dovuto quindi necessariamente disporre di un ulteriore quarto
stadio, potente quanto il terzo, tale da imprimergli una decelerazione dai
39.000 km/h dichiarati fino ad una velocità di molto inferiore ai 28.000 km/h (per non fondersi nell’impatto con l’atmosfera
terrestre). Questo avrebbe consentito loro di restare nell’orbita terrestre per
un ultimo giro e scegliere così il momento per la frenata in modo da
precipitare con una parabola controllata nell’Oceano pacifico. Quindi, se non
hanno predisposto tutto questo, come avrebbero fatto a tornare sani e
salvi? In base ai parametri, agli schemi di viaggio ed alle informazioni
sulla velocità di rientro fornite dalla Nasa per tutte le missioni Apollo,
queste sarebbero dunque dovute
precipitare sulla Terra infuocandosi e disintegrandosi come dei meteoriti,
altro che ammaraggio morbido! Ma se il Saturno
V avesse avuto quattro stadi e non tre la sua massa sarebbe stata ancora
maggiore ed avrebbe avuto bisogno di una spinta iniziale enormemente
superiore che a tutt’oggi è ancora impossibile da realizzare!
Il romanzo è disponibile in formato cartaceo su
Troppe informazioni errate senza riscontro oggettivo. Non si può contestare senza dati reali ed essere adeguatamente informati. Diffondere notizie senza dichiarare le fonti significa comunicare falsita ideologica
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